Trama.
Chantal, con le testimonianze di vecchi partigiani, cerca la grotta detta Barma Roman usata da suo padre e dalla sua banda come punto d’appoggio e d’osservazione. Maurizio, con qualche amico interessato al patrimonio del territorio valdostano, cerca le dolomiti delle Cime Bianche scomparse sotto il Monte Zerbion. Fino all’ultimo non si accorgono che stanno cercando la stessa cosa…
Capitolo primo: 250 milioni di anni fa.
Laggiù, nelle afose lagune costiere che per milioni di chilometri bordavano Pangea, il supercontinente triassico appena uscito dalla più micidiale estinzione di massa che la Terra avesse conosciuto, la vita riprendeva freneticamente come per riguadagnare il tempo perduto. Spianate le grandi montagne venute su cento milioni di anni prima, liquidate le grandi glaciazioni, la Terra sulle sue spiagge infinite si godeva un bel clima tropicale dai poli all’equatore (i detrattori dicono che c’erano anche tempeste di sabbia lunghe un secolo e spaventose eruzioni vulcaniche…).
L’erosione quasi inesistente non forniva nuovi detriti, ma si creavano sedimenti per precipitazione chimica e accumulo organico. E Dio sa se i gusci di organismi si accumulavano, se i sali marini si depositavano sulle lagune prosciugate e poi di nuovo immerse all’infinito. All’inizio prevalevano i sedimenti silicei, forse gusci di radiolari. Poi tanto calcare, in particolare gli scheletri degli abitanti della barriera corallina, cui l’acqua marina aggiungeva magnesio per fare la dolomia. Poi s’incrostavano i sali da evaporazione, con tanto gesso. Una serie geologica prendeva corpo così in tutto il mondo, costante nel tempo e nello spazio, resistente agli stress ed al metamorfismo, vistosa e ben identificabile anche da lontano grazie al suo bel colore chiaro: la serie evaporitica del Trias. Una serie che i geologi, ingrati, qualificano di “incompetente” solo perché sotto il peso dei corpi rocciosi sovrapposti si deforma facilmente, scivola e si rimpasta in straterelli sempre più sottili e bucherellati man mano che la pila di rocce scorre come su un cuscino d’acqua. Una serie che teme una cosa sola: l’erosione, alla quale è esposta soprattutto per dissoluzione, e alla quale reagisce formando imbuti carsici, ma anche torri e pinnacoli, appunto, dolomitici.
Capitolo secondo: un luogo dove è necessario essere liberi.
Che la montagna storicamente sia stata un luogo di libertà, è cosa nota ed intuitiva. Le franchigie medievali furono subito applicate ai territori alpini. Dolciniani e valdesi si rivolsero ai monti per praticare in libertà la loro fede. E la resistenza partigiana si organizzò con successo nelle valli alpine.
Meno evidente è la radice di questa libertà, che viene frettolosamente identificata con la facilità di nascondersi e quindi non farsi trovare dagli sbirri. La libertà delle montagne è tutt’altra cosa. La libertà in montagna è una necessità vitale. Prendiamo l’economia agropastorale: un’azienda di pianura, raccolta attorno alla cascina, si accontenta di avere un mercato alla fine del ciclo produttivo. Un’azienda di montagna necessita invece di organizzare la produzione a diversi livelli altimetrici, con maggiori superfici distribuite su spazi più vasti, quindi con strutture aziendali secondarie e temporanee che prevedono lunghi spostamenti. La complessità delle infrastrutture irrigue e di viabilità rurale è assai maggiore sul territorio alpino. L’economia di montagna inoltre integra in una unica comunità diversi settori produttivi, per esempio i mestieri dell’emigrazione temporanea (artigianali e/o commerciali) o le attività minerarie (estrattive e/o metallurgiche). Il sistema produttivo alpino è potenzialmente efficiente quanto quello di pianura (come illustrato da alcune celebri inchieste antropologiche), ma necessita di un livello superiore di organizzazione. In altre parole, l’economia in montagna ha bisogno di libertà: libertà di movimento, di scelte tecnologiche, di gestione territoriale. Più c’è libertà, più c’è movimento, più c’è benessere nelle valli alpine. Se invece una forza esterna arriva a soffocare alcune delle libertà fondamentali delle comunità alpine, è la fine. Ciò avviene ad esempio quando un’autorità politica sottomette pianura e montagna ad un unico regime restrittivo delle libertà personali. L’azienda di pianura economicamente riesce a sopravvivere, la comunità di montagna senza le sue libertà di organizzarsi soccombe alle avversità ambientali. Da qui la favola della “innata arretratezza” del mondo alpino.
Capitolo terzo: un protagonista del paesaggio tra Cervino e Rosa.
Sulle sue quarziti basali si arrocca la stazione funiviaria del Plateau Rosa, e di là le lastre bianche strisciano la parete del Fürggen per immergersi sotto al Cervino. Ma è sulla dorsale fra Val d’Ayas e Valtournenche che l’Unità evaporitica delle Cime Bianche dà spettacolo. Le Cime Bianche, appunto: una serie di falesie, guglie e pinnacoli che rivaleggiano con le Dolomiti. Continuando la dorsale verso sud, lo strato bianco si allarga a sostenere la Roisetta ed il Tournalin, ben visibile su entrambi i versanti. Sotto la striscia bianca, troviamo il solido basamento di scure eclogiti oceaniche a granato e anfibolo blu. Sopra, i teneri calcescisti oceanici fioriti di genepì. La fascia bianca, netta e rettilinea, solca la parete fino all’altezza del Grand Tournalin. Verso Valtournenche scorre alla base della Becca d’Aran, formando bei faraglioni e scogli isolati, a picco su un mare di stelle alpine.
Dall’intaglio del torrente lungo il sentiero 29 che da Cheneil sale alla Roisetta, cominciano le sparizioni. Improvvisamente la fascia bianca cade di una cinquantina di metri, per mostrare solo più un grosso nodulo alla base della falesia grigia che circonda la conca di Cheneil. Poi si trova una puntina bianca coperta di ciottoli a losanga sul sentiero dell’Alta Via. Ancora più a sud, affiorano scarpate bianche ruiniformi alla base della Fontana Fredda verso Chamois. Nel vallone di Nannaz uno sbarramento bianco forma l’enorme inghiottitoio di Cleva Bella. Verso il Col Pilaz occhieggiano altri versanti bianchi in crollo, e alla Magdeleine l’ultimo affioramento è segnato da un magnifico forno da calce sul sentiero del Tantané. Dopo, silenzio. Nessun’altra traccia dell’Unità Cime Bianche verso sud. Schiacciata, spremuta, spalmata fino a perdere continuità e spessore, sembra estinta e persa nelle viscere della montagna.
Capitolo quarto: per la libertà e per la pelle.
Non avevano molte alternative i giovani valdostani, ovunque si trovassero in guerra, quell’8 settembre 1943. O si consegnavano ai repubblichini, per fare i tirapiedi dell’esercito nazista d’occupazione, o scappavano a casa e si nascondevano su per le montagne. Molti valdostani rientrarono tirandosi dietro giovani di tutta Italia che non avevano montagne a casa loro. Nacque così la Resistenza in Valle d’Aosta.
Ma la Resistenza non era tutta uguale. Frammentata in brigate, bande e territori, faceva riferimento al Partito Comunista clandestino nella maggior parte della Bassa Valle (brigate Garibaldi). Ma in Valtournenche e nei dintorni valeva una logica diversa. La Valtournenche, con la funivia del Plateau Rosa, era la via maestra per la Svizzera.
La Valtournenche, con le sue tre centrali elettriche, alimentava una grossa fetta delle industrie del Nord Italia. I personaggi che circolavano nella Resistenza della Valtournenche erano incompatibili con le brigate garibaldine. Sullo sfondo, c’erano gli industriali “progressisti” scappati in Svizzera, i quali a Cheneil avevano il loro punto di contatto con gli industriali “illuminati” rimasti, che cercavano di smarcarsi da un regime che sentivano alla fine. In prima linea invece operava una brigata autonoma con ex militari, ragazzi del posto in età di leva, qualche ebreo, monarchici sbandati e giovani in attesa di passare in Svizzera o di rientrare al paese in Italia. L’élite politica valdostana era rappresentata da un giovanissimo “commissario politico” in mobilità anche su altre bande. Nei villaggi alti, sovente ancora abitati, le bande tenevano i loro quartieri principali, mentre altri ricoveri di fortuna servivano nei momenti di grande pericolo. Uno di questi ricoveri, per breve tempo, fu la Barma Roman, grotta perduta nel gran versante franoso del Grand Valey sotto il Mont Zerbion.
Capitolo quinto: la montagna tagliata a fette.
La “collina” di Saint-Vincent digrada dolcemente ad anfiteatro assecondando il gran gomito della Dora che qui piega a sud ad angolo retto. L’abbassamento delle quote è dovuto al gran trituramento delle rocce per l’incrocio di due fasci di faglie che s’intersecano a 45 gradi. Il versante sud del Mont Zerbion rappresenta il rigetto di una di queste faglie (cioè la parete che resta in piedi), mentre il corridoio di frana del Grand Valey costituisce uno spacco di collegamento fra un ramo e l’altro della faglia. Il versante sud del Mont Zerbion è dunque la sezione verticale della dorsale fra Valtournenche e Val d’Ayas che abbiamo visto nel capitolo terzo.
I sentieri che percorrono il versante hanno la vita difficile, dovendo attraversare una zona instabile e dirupata, solcata dal pericoloso colatoio attivo del Grand Valey. Sul margine del dirupo, Nuarsaz e Travod sono gli ultimi villaggi su roccia stabile. I due sentieri segnalati, e ora chiusi per frana, fanno entrambi capo al panoramico terrazzo di Nuarsaz. A Travod invece ben pochi si fermano ad ammirare la graziosa cappellina tesa a proteggere l’intera vallata. Peccato, perché a fianco della cappellina nasce un sentierino che senza dare nell’occhio s’inoltra risolutamente fra gli ultimi prati terrazzati e stabili, in direzione del grande dirupo.
Capitolo sesto: il guardiano di Barma Roman.
Poco convinti, avanziamo sul sentierino fra un muretto a secco e l’altro. C’è qualcosa di strano in questi muretti… sono sempre più bianchi! Tiriamo fuori il fedele chiodo di acciaio: la pietra bianca viene rigata dal chiodo. Non è quarzite. Lasciamo cadere una goccia di acido: non fa effervescenza. Non è calcite. Potrebbe essere feldspato o dolomia, con una larga preferenza per quest’ultima.
Nel frattempo siamo entrati nel grande dirupo. Alziamo gli occhi: una falesia bianca forma una lunga tettoia riparata dal vento. Sul fronte di roccia c’è di tutto, filoni e boudins di rocce diverse avvinghiati e ritorti, spanciati e laminati: metabasiti, serpentiniti, quarziti, dolomie e soprattutto calcari, tutti con le loro colate variopinte da alterazione meteorica. Un lampo nella mente: la Barma Roman che cercavamo, la grotta “impossibile” in un paese quasi privo di carsismo quale la Valle d’Aosta. Ecco dove poteva esserci una grotta: nel calcare, nell’ultimo affioramento dell’Unità delle Cime Bianche, sul dirupo del Grand Valey.
Diligentemente il sentierino segue per venti minuti il piede della falesia ora alta, ora bassa, ora scomparsa sotto il detrito ed ora ricomparsa più bianca che mai. Finché, dopo un canalone, compare il segnale. Un enorme stambecco sbarra la strada, poi si decide a piazzarsi maestosamente su un terrazzino roccioso ben esposto sulla valle: il posto della sentinella. Di fronte, la falesia rientra maggiormente con un pronunciato riparo sotto roccia. Un budino di carniola bucherellata segna il punto più ampio della rientranza. Tutt’intorno, stemmi di Savoia e di Challant sovrastano la grotta, con una data: 1581. Figurine umane a biacca contraddistinguono certe rocce, altre scritte più recenti si sovrappongono. Un gruppo di combattenti da qui osservava gli effetti della loro azione di sabotaggio sulla Mongiovetta, il 6 agosto 1944. Erano ben nascosti, i partigiani della brigata Marmore, l’Unità Cime Bianche pure, ma bastava unire le due cose…