Benvenuti al cospetto di una delle più panoramiche ed accessibili cime delle Alpi. Dagli abissi oceanici alle lagune triassiche ai lidi africani, un itinerario geologico che è un omaggio alla più simpatica e remunerativa punta della Valtournenche. Passo dopo passo, tutto è da notare per tutto apprezzare lungo un percorso che non sente il dislivello.
Località: Valtournenche, Valle d’Aosta, Italia.
Accesso: Autostrada A5, uscita Châtillon, strada regionale n. 46 per Cervinia, al km 21 in località Evette bivio a destra per Cheneil fino a fine strada.
Partenza: Barmaz 2030 m
Quota massima: Roisetta 3324 m
Dislivello: 1300 m
Difficoltà: E, per escursionisti normalmente allenati e ben attrezzati, con buone condizioni meteo.
Segnavia: 29
Periodo: da luglio fino a caduta neve. Poca neve in alto non pregiudica la gita. D’inverno ottima gita con le racchette o gli sci, ma prendere l’itinerario alternativo n. 30 a neve ben assestata.
Sotto il fondo dell’antico oceanoArriviamo al parcheggio al mattino presto perché la gita è lunga: fa quindi freddo e non c’è molta luce, rimandiamo le osservazioni geologiche in loco al ritorno. Saliamo quindi sul ripiano di Cheneil (2090 m) dov’è più chiaro e forse già soleggiato, e ci teniamo sul suo bordo a sinistra (foto 1), dove una specie di piccola piattaforma erbosa funge da belvedere, ora ingombro di ogni sorta di materiali all’arrivo della teleferica. Qui affiora il basamento del ripiano di Cheneil, di cui abbiamo or ora risalito gli ultimi 60 metri. La roccia mette in mostra innanzitutto (foto 2) l’abbinamento di granato (rosso) e pirosseno sodico (verde) che definisce la facies eclogitica, cioè la mineralizzazione acquisita dalle rocce basaltiche in condizioni di alta pressione (grande profondità, oltre 50 km) e bassa temperatura (max 550 °C). Il pirosseno sodico è in realtà una famiglia di silicati di cui fanno parte la giadeite (la “giada” birmana) che si trova abbondante in bassa Valle d’Aosta, e l’onfacite, ricca di ferro, magnesio e calcio, che si trova, ad esempio, nelle rocce oceaniche profonde trasformate in eclogiti. |
L’eclogite è accompagnata da un corteggio di altri minerali in parte in equilibrio con le condizioni eclogitiche (anfibolo blu, mica bianca ferrifera, quarzo), in parte compatibili con livelli più superficiali (epidoto, quarzo). La roccia scura, densa (“pesante”), ricca di minerali contenenti ferro e magnesio, è stata attribuita ad un’antica placca oceanica, e precisamente alla parte inferiore di essa, a contatto con il mantello sottostante (vedremo delle serpentiniti di mantello al ritorno al parcheggio). Ma per acquisire la mineralogia eclogitica bisogna postulare anche, come si è visto, un successivo sprofondamento di oltre 50 km (subduzione sotto un’altra placca) nel corso dell’orogenesi alpina. La freschezza di molti dei minerali eclogitici implica poi una risalita veloce, tale da preservare anche a pressioni inferiori ed in superficie il reticolo cristallino acquisito in profondità. Questo tipo di roccia affiora o è intuibile sotto altre formazioni per un’estensione di 60 km da nord a sud e una trentina da est a ovest (fig. 3). L’insieme ha preso il nome di Zona Zermatt-Saas, unità eclogitica profonda facente parte del Complesso Piemontese dei Calcescisti con Pietre verdi definito dai rilevatori della Carta Geologica d’Italia all’inizio del Novecento, poi identificato con i resti della placca oceanica piemontese della Tetide. |
Ricapitolando, siamo in piena placca oceanica a composizione basaltica, con rocce di origine magmatica (gabbri, colate di lava sottomarina) e ora metamorfiche con equilibri di alta pressione e bassa temperatura (eclogiti basiche). La placca oceanica si è sviluppata nel Giurassico e fino al Cretacico inferiore (circa 100 milioni di anni fa) come espansione della placca eurasiatica. L’ipotesi più seguita attualmente è che a questo punto del Cretacico, per ragioni esterne al nostro contesto, il movimento generale delle placche mutò improvvisamente, la placca oceanica arrestò l’espansione e si trovò stretta fra i due megacontinenti (Eurasia ed Africa) in riavvicinamento. Iniziò quindi una subduzione forzata del giovane oceano sotto ad una placca continentale di pertinenza africana, subduzione che arrivò alla massima profondità all’Eocene (49-45 milioni di anni fa). Siamo quindi testimoni di una serie di avvenimenti fondamentali per l’edificazione delle nostre Alpi: tutta la loro fase oceanica viene qui documentata con precisione, in particolare il sorprendente percorso di sprofondamento con successiva rapida esumazione in superficie (fig. 4). |
Finite le osservazioni della falda oceanica profonda che fa da basamento alla conca di Cheneil, tagliamo il prato verso sinistra per attraversare il torrente al ponticello in legno, quindi (palina e segnavia 29) seguiamo a destra il piede del versante destro idrografico verso l’alpe Château dove osserviamo ancora metabasiti con relitti eclogitici (foto 5) fra le case. Notiamo anche qualche incisione recente sulle rocce spianate dell’alpeggio. Continuiamo poi a mezza costa senza incontrare affioramenti fino alla quota 2260 m. |
Alcune presenze intrigantiSiamo all’alpe Aran, solo qualche rudere con un’imponente mulattiera a scalinata verso destra (foto 6) mentre noi, sempre seguendo il segnavia 29, ci inoltriamo a sinistra in una valletta incantata. Alla nostra destra lo spalto sinistro idrografico della valletta è costituito da un coriaceo risalto di roccia chiara, levigata dal ghiacciaio pleistocenico, qua e là allegramente coperta da rododendri, mirtilli e qualche larice. |
L’esame da vicino della roccia (foto 7) dovrebbe farci sobbalzare: magnifici scisti argentei con molto quarzo e mica bianca, un po’ di albite, insomma la quintessenza della continentalità in piena zona oceanica! Il risalto di scisti quarzosi, suddiviso in due tronconi, sale fino a quota 2330 m. Da questo punto lo si vede continuare in bancata verso destra al di là del torrente, sempre alle stesse quote, e fare il giro della conca di Cheneil. Non si trovano minerali eclogitici in queste rocce, che affiorano isolate sopra una fascia detritica. Perplessi per questa variazione repentina di contesto, fiancheggiamo verso l’alto le rocce grigie. Per capirci qualcosa di più, occorre però fare una deviazione. Dal sentiero, alla quota 2330 una ripida traccia si stacca a sinistra e porta a toccare la base di un risalto isolato sopra la nostra testa, per poi seguirne la base ancora a sinistra fino ad infilarsi in quello che sembra un canale verde in mezzo a faraglioni bianchi (foto 8). |
Siamo alla base della Becca d’Aran, lungo una parete denudata da antichi crolli. Ebbene, la serie degli scisti quarzosi comprende tutto il risalto basso, e continua salendo alla base della falesia fino quasi al colletto terminale, dove si sfilaccia con contatto ripetuto (foto 9) nella formazione Pancherot-Cime Bianche, qui rappresentata da calcari dolomitici chiari. Risolto il mistero: questo ed altri contatti in alta Valtournenche hanno permesso di situare gli scisti quarzosi di Cheneil (“quarziti micacee” nell’immagine 11-b) alla base stratigrafica della serie Pancherot-Cime Bianche che il sentiero per la Roisetta incontra appena sopra, e che vedremo fra poco.
Torniamo dunque giù al nostro sentiero a mezza costa che sale dolcemente in detrito fino alla quota 2386 m. Qui non abbiamo che da risalire per qualche metro a sinistra prima di attraversare il torrente: non solo ci troveremo immersi in questo strano universo calcareo stratificato (foto 10), ma per buona parte dell’estate potremo sdraiarci su un tappeto di soffici e rigogliose stelle alpine, notoriamente amanti del calcare. Abbiamo dunque abbandonato l’oceano per approdare alle sue antiche sponde, peraltro dislocate e trasposte per centinaia di chilometri. Come abbiamo visto, la classica serie triassica riconosciuta negli anni ’60 in varie zone delle Alpi come margine continentale, e qui chiamata Pancherot-Cime Bianche, si estende a Cheneil sul suo periodo più antico, probabilmente ancora paleozoico, con gli scisti quarzosi alla base. Seguono verso l’alto quarziti bianche tabulari, in questo settore assai discontinue, poi vari metri di calcari e dolomie più o meno stratificati, rappresentanti antiche sabbie calcaree e barriere coralline. La formazione è sigillata da rocce di ambiente lagunare, in particolare le bucherellate carniole che qui sono assai scarse. |
Richiamati al dovere, abbandoniamo il salotto di stelle alpine e attraversiamo il torrente risalendo poi il conoide detritico fino al suo apice, a quasi 2500 m. Qui un accumulo di grossi massi ingombra il passaggio obbligandoci alle prestazioni più acrobatiche dell’intero percorso. Consoliamoci guardandoci attorno. Sulla sinistra la formazione calcareo-dolomitica delle Cime Bianche forma una bella falesia chiara visibile ancora sotto l’acqua del torrente. Sulla destra, allo stesso livello, appare invece una dirupata roccia a patina bruniccia: si tratta di metabasiti che, ricordiamolo, sono rocce derivate da gabbri e basalti oceanici, sovrastate da un livello discontinuo di metasedimenti (calcescisti). Non resta che invocare la presenza di una faglia (foto 11-a e 11-b) che passi lungo il torrente per abbassare la riva sinistra idrografica rispetto alla destra di oltre una cinquantina di metri, misurati sull’affioramento di calcari delle Cime Bianche che occupa la base della bancata. Altri calcari triassici bianchi o grigi delle Cime Bianche affiorano poi più a sud sotto l’Alta Via e appaiono qua e là verso Chamois e La Magdeleine. |
Risaliamo in superficie… sul fondo dell’oceanoIl sentiero sale lungo il fondo del valloncello, accanto al torrente, fino alla quota 2650 dove sbocca nel gran ripiano erboso di Ledzan, ormai in vista della cima. Qui si stacca a sinistra il sentiero per la Becca d’Aran, mentre noi ci inoltriamo nel valloncello tutto a destra (direzione ENE), sulla riva destra del ruscello. Begli affioramenti non se ne vedono più, ma in detrito la roccia è per lo più un calcescisto beige dall’aspetto friabile e corroso con frequenti venuzze di quarzo (foto 12). |
La rampa finisce ai 3000 m della comba ai piedi della cima, ricca di sfasciumi e macereti ma ormai povera di vegetazione. Spicca sulla destra salendo un accumulo scuro bluastro di serpentiniti (foto 13) provenienti dalla zona fra Roisetta e Tournalin. |
Ben presto si giunge alla cresta (3140 m) che dà sui caratteristici Sigari Bobba, più seriosamente cartografati ora come Dents d’Aran, e comincia ad aprirsi il panorama sulla Valtournenche (foto 14).
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A partire dal tetto della formazione Pancherot-Cime Bianche, anche se non ce ne siamo accorti per le grandi coltri detritiche e colluviali, siamo dunque entrati in questa seconda unità del Complesso oceanico piemontese, prevalentemente metasedimentaria laddove la prima era prevalentemente di origine magmatica (fig. 15). |
Sulla cresta sommitale, sotto la rustica croce in legno una piccola sorpresa ci aspetta (foto 16): un minuscolo spuntone di serpentinite scura, bluastra, spalmata di magnetite nera. I noduli di rocce magmatiche o mantelliche sono meno frequenti nella Zona Combin ma ci sono. Inoltre sono meno deformati, più vicini al loro aspetto oceanico originale che nella unità profonda Zermatt-Saas, la quale ha subito un metamorfismo più forte. |
Un gran giro d’orizzonteIn realtà la grande sorpresa della cima, con tempo limpido, è piuttosto il panorama, che appare quasi all’ultimo momento. A NE (foto 17) il duomo cristallino del Monte Rosa, dalla Dufour (4634 m) ai Lyskamm (4527 m), spunta improvviso da un più basso orizzonte di cime in secondo piano. |
Su questa falda continentale che viene dal profondo, ma sbalzata più in alto di tutte, poggia il resto del cupolone glaciale, dal Polluce (4091 m) al Breithorn (4165 m), scolpiti nelle rocce oceaniche profonde della Zona Zermatt-Saas (foto 18). La falda delle rocce oceaniche continua ad immergersi dolcemente verso W arricchendosi, dalla Testa Grigia (Plateau Rosa) in poi, del suo cappello di calcescisti e prasiniti del Combin. Fra le due unità del Complesso oceanico piemontese s’inserisce la fascia bianca triassica Pancherot-Cime Bianche, particolarmente sviluppata sotto di noi in primo piano, appunto nelle Cime Bianche, dove crea anche grandi falesie di aspetto dolomitico. Dietro invece appaiono le piramidi oceaniche-profonde del Vallese: Weisshorn (4506 m), Zinalrothorn (4221 m), Obergabelhorn (4063 m). Fare riferimento anche alla figura 15. |
Sul Fuerggen la successione inclinata dei livelli oceanici superiori è particolarmente evidente e regolare. Su di essa poggia improvvisamente il Cervino (4478 m) con tutta la sua mole composita, dal gabbro basale all’ortogneiss di Arolla al paragneiss di Valpelline sulla cima (fig. 19). Dietro fa capolino la Dent Blanche (4357 m) a cui i geologi svizzeri dedicarono la falda continentale del Cervino. |
Seguono le Murailles culminanti nella maestosa Dent d’Hérens (4171 m), anch’esse scolpite nelle rocce continentali “africane” del Cervino. Il piano di scorrimento della falda continentale del Cervino sulla falda oceanica piemontese (foto 20-a e 20-b) è individuabile sotto a tutte le Grandes Murailles. |
Tale contatto risale al Col Finestra e passa in secondo piano dietro al Pancherot, sul quale si vede chiaramente la ripresa in simmetria della fascia bianca triassica con una grande frana (foto 21-a e 21-b). Ancora più sullo sfondo spunta il Grand Combin (4314 m) che dà il nome alla nostra unità oceanica metasedimentaria e non-eclogitica. |
La grande falda del Cervino (Dent Blanche degli autori svizzeri) movimenta ancora lo sfondo con le belle silhouettes della punta Cian e della Becca di Luseney. Dietro quest’ultima appare il Monte Bianco (4807 m), con le appuntite Grandes Jorasses (4208 m); sullo sfondo (foto 22) appaiono ancora le masse bianche del Ruitor, della Grande Sassière e del Gran Paradiso (4061 m).
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Se posiamo lo sguardo più vicino a noi, anche sul paesaggio vallivo ai nostri piedi scopriamo indizi stimolanti. Sia dall’estremità W della cresta sommitale, a picco sulla Valtournenche, che più in basso dalla cresta che fiancheggia les Dents d’Aran, si constaterà (foto 23) che entrambe le spalle della Valtournenche, sia su Torgnon che su Cheneil-Chamois, si articolano in vaste spianate erbose dolcemente degradanti a scalini. La giacitura a debole immersione SW di tutta la serie sovrapposta delle falde sembrerebbe responsabile di questa morfologia a terrazze suborizzontali. L’espressione “terre alte” viene spontanea per definire queste ondulazioni sospese fra cielo e terra, occasionalmente risuonanti delle mandrie d’alpeggio o percorse da sterminate greggi di pecore.
Il punto più alto della nostra cresta, a N di un colletto in via di deglaciazione, potrebbe essere raggiunto sia pure con un po’ più di fatica; ma la posizione più interna di quella cima vanifica, dal punto di vista del panorama, gli otto metri di vantaggio. Siamo dunque autorizzati a rimanere accanto alla croce il tempo necessario per le osservazioni, per il picnic e per la siesta. |
E non è finitaIl ritorno, per la via della salita, sarà utile per rivedere e verificare i punti nodali delle strutture, e per raccogliere campioni; ma può essere effettuato anche prendendo a sinistra, giù al piano di Ledzan, il sentiero n. 30 e facendo così il giro della conca di Cheneil. Questo itinerario è consigliabile d’inverno con gli sci anche per la salita. In ogni caso a Cheneil (foto 24) è difficile resistere alla tentazione di fermarsi sulla terrazza dello storico “Panorama al Bich” a sorseggiare una birra o un caffè, pensando agli illuminati borghesi d’anteguerra, che qui ci hanno preceduto fieri dei loro ideali di progresso e di sfida con l’alpe; ai leggendari alpinisti di cui Luigi Carrel detto Carrellino, antico padrone dei luoghi, resta il prototipo; nonché agli imprenditori italiani antifascisti, che durante l’ultima guerra qui avevano il loro raccordo con l’amica Svizzera. |
Una volta ritornati al parcheggio, vale la pena di passare ancora in breve rassegna (foto 25) le non banali alternanze di metabasiti e serpentiniti che fanno bella mostra di sé sulla scenografica parete della Barmaz, dietro le case. Siamo naturalmente ridiscesi al livello del basamento della placca oceanica piemontese, con rocce di mantello e di base crostale in facies eclogitica (Zona Zermatt-Saas). La parete è raggiungibile sia a destra della casa, vicino al tetto, che a sinistra più in basso e in modo più confortevole. L’originalità geologica consiste nel fantasioso inviluppo dei vari corpi tondeggianti di queste due litologie, sinuosamente interconnessi in sezione sulla superficie liscia a strapiombo. La deformazione particolarmente “fluidale” della roccia dipende probabilmente anche dalla forte presenza di acqua durante il processo di subduzione e/o esumazione; l’acqua d’altronde è in qualche modo presente ancor oggi sia nella serpentinite che nell’anfibolo della metabasite, in quanto si tratta di minerali idrati. Abbondanti colate di alterazione strisciano la parete, innescate dallo scorrimento di acqua meteorica: colate bianche (leucoxeno) di probabili minerali di titanio e colate nere (melanoxeno) di probabili ossidi di manganese. |
Ringraziamenti
Ringrazio calorosamente il prof. G.V. Dal Piaz per i suoi ripetuti interventi chiarificatori ed il suo apporto di documenti editi ed inediti al fine di perfezionare la redazione di questo grande itinerario geologico.
Opere citate
Dal Piaz G.V. (coord.) (in stampa) – Carta geologica d’Italia alla scala 1:50000 foglio 070 Monte Cervino. Note illustrative. Servizio Geologico d’Italia, ISPRA, Roma. Visibile sul sito www.isprambiente.gov.it
Bonetto F., Dal Piaz G.V., De Giusti F., Massironi M., Monopoli B., Schiavo A. (2010) – Carta geologica della Valle d’Aosta al 1:100000 con note illustrative. Regione Aut. Valle d’Aosta, Ass. Territorio Ambiente OOPP.
Angiboust S., Agard P., Jolivet L., Beyssac O. (2009) – The Zermatt-Saas ophiolite: the largest and deepest continuous slice of oceanic lithosphere detached from a subduction zone? Terra Nova 21-3 : 171-180
Kienast J.R. (1973) – Sur l’existence de deux séries différentes au sein de l’ensemble « schistes lustrés-ophiolites » du Val d’Aoste : quelques arguments fondés sur l’étude de roches métamorphiques. C.R. Acad. Sci. Paris, 276 : 2621-2624.
Bellissima panoramica di spazi noti ed esteticamente goduti, ma riscoperti con sguardi profondamente spinti nelle ere che hanno accompagnato il muoversi continuo della terra. Scontri, rimbalzi e scorrimenti di placche e precipitare di paleofrane, il Cervino immensa roccia africana! La geologia che rinnova e arricchisce l’alpinismo!