Il vallone delle Cime Bianche (alta valle di Ayas) è ormai legato al celebre appello del professor Dal Piaz, che negli anni ’90 ne invocava la costituzione a “Parco dell’Oceano Perduto” per le sue ricchezze geologiche a testimonianza dell’antico oceano che sta all’origine di questa parte delle Alpi.
In realtà l’interesse geologico del vallone, come vedremo, va anche oltre la puntuale riproduzione dell’antico ambiente abissale di fondo oceanico. Ma cominciamo pure da qui, dalla ricerca dell’oceano perduto e dei tre livelli di cui si compone, risalendo il primo tratto della gran mulattiera che da Saint-Jacques si dirige verso i piani di Verra ed il Monte Rosa.
Accesso: dall’autostrada A5 uscita Verrès risalire tutta la valle dell’Evançon sulla strada regionale n° 45 fino a Saint-Jacques, ultima frazione del Comune di Ayas. Traffico regolamentato con navetta da Frachey in certi periodi.
Partenza: dalla piazzetta di Saint-Jacques 1650 m.
Punti importanti del circuito: Plan de Tsère, Alpe Varda, Alpe Mase (culmine, 2400 m), Alpe Ventina, Fiéry.
Dislivello: 750 m.
Segnavia: 7, 8e, TMR, 6.
Nota: molta acqua in ruscelli e torbiere, ma poche sorgenti e nessuna fontana fino a Fiéry.
Il bosco da Blanchard (Saint-Jacques) al bivio per il vallone di Tsère (sentiero 8e TMR) ricopre una vasta distesa irta di grossi massi, sotto i piedi assai scivolosi. Gli spigoli un po’ smussati, le dimensioni variabili dei blocchi e un po’ di limo fra le pietre ci inducono ad attribuire un’origine glaciale a questo deposito.
Girati a sinistra, dopo il primo tratto ancora nel bosco, il sentiero Tour du Mont Rose s’inoltra nel vero e proprio vallone di Tsère delimitato da costiere rocciose che divengono incombenti all’approssimarsi del torrente, dove un terrazzino attrezzato permette di orientarsi. In particolare si passa al piede di enormi pareti verticali lisce e nere, scandite regolarmente in diedri alti oltre una decina di metri. Analoghi liscioni si troveranno al fondo del Plan de Tsère, riflettenti come uno specchio quando sono bagnati. Se disponiamo di una calamita, vediamo che si attacca fortemente a questa roccia.
Eccoci dunque al primo approccio con l’oceano del professor Dal Piaz, iniziando dal basso. Siamo infatti nell’antico basamento della placca oceanica, là dove il fondo oceanico interagisce con il mantello terrestre sottostante. L’apporto di materiale dal mantello al basamento oceanico è continuo per tutta la durata dell’oceano, assicurando a questo livello una roccia densa (“pesante”) e ricca di ferro come si conviene ai materiali profondi della Terra. La magnetite che attrae la calamita è la prova di questa massiccia presenza di ferro.
Oltre alla magnetite, questa roccia contiene un silicato idrato di magnesio, altro elemento ben presente nel mantello terrestre. L’acqua contenuta nel silicato è quella dell’antico oceano scomparso. La roccia nel suo insieme è detta serpentinite per la sua somiglianza, alla vista ed al tatto, con la pelle di un serpente (ma non sempre la somiglianza riesce bene). La serpentinite che affiora già su una parte del Monte Rosa (Polluce, Rocce Nere, Rocca di Verra…) per poi stendersi sulla Comba di Tsère rappresenta dunque il livello inferiore (basale) dell’antico fondo oceanico alpino.
Al fondo dell’umido Plan de Tsère, al piede delle rocce a specchio, giriamo a sinistra e risaliamo la costiera che separa la Comba di Tsère dalla Comba d’Aventine, per entrare nel gran vallone delle Cime Bianche. Ma a metà salita ci troviamo a camminare su una roccia friabile, tutta sminuzzata in scagliette grigio-azzurrine. È ancora la nostra povera serpentinite così ridotta dallo sfregamento con le rocce soprastanti, le quali costituiscono il secondo livello della nostra placca oceanica. Infatti, superata questa fascia laminata e una successiva zona detritica, al colmo della dorsale vediamo affiorare una roccia diversa, bella densa anche lei, ma che non attira più la calamita. La pasta della roccia è più chiara e granulosa, con cristallini verdi, rossastri e bianchicci vagamente raggruppati in bande parallele più o meno spesse. In questa associazione di pirosseno, granato ed epidoto gli esperti in petrografia riconoscono gli originari magmi basaltici intrusi nella crosta oceanica o eruttati su di essa dai numerosi vulcani sottomarini.
Se da un lato infatti la composizione chimica globale della roccia è ancora quella della lava basaltica del fondo oceanico, d’altro lato i minerali che la compongono sono assai diversi, in quanto l’originario basalto, insieme con tutta la placca oceanica, è successivamente sprofondato a diverse decine di chilometri di profondità nel corso dell’orogenesi alpina; i suoi minerali originari non hanno retto alla pressione e si sono trasformati nei cristallini più densi che ora vediamo.
Questa roccia originariamente basaltica si chiama metabasite. Fra un corpo e l’altro di metabasite, in questo livello intermedio del fondo oceanico si inseriscono alcune lenti di sedimenti oceanici, anch’essi trasformati dall’alta pressione. Da originari fanghi argilloso-calcarei di alto mare si sono formati marmi impuri a granato, con granati di qualche millimetro a volte quasi limpidi.
Dal colmo della dorsale dove ci troviamo, la barriera rocciosa più imponente nel paesaggio ce la troviamo di fronte, lungo il versante destro del vallone, attraversata dalla vistosa fascia bianca che continua a tratti verso nord con i caratteristici pinnacoli dolomitici.
Quello che ci interessa ora è la gran mole di rocce fracassate che poggiano sulla fascia bianca, culminanti nel Tournalin e nella Roisetta. Questa massa di calcescisti costituisce il terzo livello del fondo oceanico, quello superiore: i sedimenti di mare aperto. Anch’essi sotterrati nel corso della surrezione alpina, registrano però pressioni (e quindi profondità) meno forti degli altri due livelli: forse la moderata densità delle loro rocce originarie ha favorito un loro parziale “galleggiamento”. La fascia bianca, molto più antica delle rocce oceaniche, rappresenta invece il margine dell’antico continente verso l’oceano allora in formazione. È fatta essenzialmente di calcari dolomitici e di rocce evaporitiche, contenenti cioè i sali marini derivanti dall’evaporazione delle lagune costiere.
Fin qui l’oceano del professor Dal Piaz.
Ora siamo in grado di farci un’idea sugli aspetti del vallone che più ci riguardano. Cominciamo dalla sciabilità del vallone: ben lo sanno gli scialpinisti, qui per scendere bisogna spingere. La pendenza è nulla per lunghi tratti, tanto che anche i progetti di nuovi impianti nel vallone non prevedono la continuità delle piste. Altra particolarità: il vallone è suddiviso per il lungo in ben tre valloncelli distinti, Tsère, Aventine e Courtod, come se si fosse formato da tre solchi paralleli. Riprendiamo a questo punto anche una osservazione relativa alla nostra esplorazione dell’antico oceano: i tre livelli in cui il fondo oceanico si suddivide non li abbiamo cercati scavando in verticale, ma spostandoci col sentiero da est a ovest del vallone. Infatti il nostro fondo oceanico presenta i suoi livelli un po’ inclinati, da quello inferiore sul versante sinistro (Tsère) a quello superiore sul versante destro (Roisetta).
Tutte queste particolarità possono esser messe in relazione con il movimento ascensionale del massiccio cristallino del Monte Rosa, che dalla sua posizione profonda tende a spingere verso l’alto anche quello che gli sta sopra. Così il Rosa ha trascinato su l’antico fondo oceanico, in modo che quest’ultimo si trova inclinato verso la Valtournenche (verso ovest) più che verso il fondovalle e la Dora. Lungo il piede del massiccio, quasi in piano dunque, l’antico fondo oceanico fa le spese di questo sollevamento, “strappandosi” a tre riprese: questi “strappi”, chiamati faglie, aprono il vallone delle Cime Bianche con le sue tre Combe. Le faglie più recenti sono ben visibili nel paesaggio, soprattutto quella che entra ed esce dalla torbiera dell’Alpe Varda: una lunga frattura rettilinea larga una decina di metri e profonda quasi altrettanto.
Dal livello intermedio della placca oceanica, quello della metabasite, veniva storicamente cavata la pietra ollare, con la quale si producevano in situ recipienti al tornio idraulico, lastre e altri manufatti. La maggior parte dei reperti (scarti di tornio) ora si trova giù a Saint-Jacques, ma la tradizione vuole che il centro di lavorazione fosse all’Alpe Mase.
All’Alpe Mase, punto culminante del nostro percorso, si concentrano diversi motivi d’interesse. Cinque scarti conici di pietra ollare sono inseriti nel muro nord della baita principale, e almeno tre massi di pietra ollare fra le case recano incisioni di epoca storica recente. Un gran riparo sotto roccia, attrezzato con tetto e muro di cinta, potrebbe essere servito come laboratorio. Un altro masso un po’ più lontano custodisce tracce di lavorazione al tornio.
Il ritorno sul sentiero n. 6 passa attraverso gli storici pascoli walser dell’Aventine prima di ritrovare il bosco fresco del “fondovalle” (quello di mezzo…). A Fiéry, dopo aver ammirato il forno in fondo al villaggio, si potrà assaporare l’atmosfera belle époque insieme con un tè e una fetta di torta, rileggendo le cronache semiserie di una rampante borghesia che qui scrisse Guido Gozzano.
Cenni bibliografici
Dal Piaz G. V. (a cura di) (1990) – Le Alpi dal M. Bianco al Lago Maggiore. 2 voll, © S.G.I., BeMa Editrice. In particolare vedere vol. II itinerario L 13 pag. 139.
Dal Piaz G. V., Ernst G. W. (1978) – Areal geology and petrology of eclogites and associated metabasites in the Piemonte ophiolite nappe, Breuil-St.Jacques area, Italian Western Alps. Tectonophysics 51, 99-126.
Ernst G. W., Dal Piaz G. V. (1978) – Mineral parageneses of eclogitic rocks and related mafic schists of the Piemonte ophiolite nappe, Breuil-St.Jacques area, Italian Western Alps. American Mineralogist 64, 15-31.
Vuillermoz Ch. (2011) – Guido Gozzano: la montagna guaritrice: storia di un breve soggiorno del poeta piemontese in val d’Ayas. Tipografia Duc, 119 p.
Castello P., De Leo S. (2007) – Pietra ollare della Valle d’Aosta: caratterizzazione petrografica di una serie di campioni e inventario degli affioramenti, cave e laboratori. In: Bulletin d’études préhistoriques et archéologiques alpines XVIII, 53-76