Ebbene sì, anche nella pacifica Valle d’Aosta sono diffusi gli inghiottitoi, queste trappole micidiali, ma solo per l’acqua. In effetti, niente paura: le probabilità di essere imprigionati in un inghiottitoio valdostano tanto da non riuscire a venirne fuori sono praticamente zero.
L’ambiente degli inghiottitoi è comunque affascinante. Innanzitutto si tratta di un mondo in rapida evoluzione: da una stagione all’altra, da un anno all’altro la disposizione dei vari elementi cambia anche notevolmente. Inoltre l’acqua e la neve vi si comportano in modo speciale, e ciò colpisce lo sguardo. E poi, in un idilliaco prato fiorito vedere tutt’a un tratto uno sfondamento inquietante, apparentemente ingiustificato, fa trattenere i passo ed accelerare il respiro.
Vogliamo dirla tutta? Migliaia di persone attraversano ogni anno a piedi un chilometro di inghiottitoi e manco se ne accorgono. Gli inghiottitoi valdostani sono per lo più molto discreti.
Ma che cos’è un inghiottitoio? Per meglio rispondere, andiamo a vedere un inghiottitoio completo e palese, con tutti gli elementi a posto.
Itinerari brevi, descritti nel testo:
1. La Thuile – Pétosan
2. La Magdeleine – Col Pilaz
3. Chamois – Clevabella
Da La Thuile prendiamo la stradina per Arpy-Colle San Carlo e parcheggiamo subito ai Trinceramenti del Principe Tommaso, bivio per Pétosan. Ci inoltriamo verso il villaggio di Pétosan costeggiando una gran spianata acquitrinosa (secondo le stagioni) che ci teniamo alla nostra sinistra.
Dalle ultime case tagliamo a sinistra ad angolo retto ed attraversiamo la spianata con i relativi ruscelli tenendoci al piede del pendio. Al bordo opposto della spianata si eleva un modesto cordone roccioso con dei larici e qualche baracca. Tra gli alberi più bassi, secondo le stagioni, si insinua un ruscello più o meno ricco d’acqua che scompare fra le radici. Scompare nell’inghiottitoio, e non lo ritroviamo più: uscirà forse giù nel vallone dove scorre il torrente principale. Risaliamo invece a ritroso il ruscello: dopo poche decine di metri lo troviamo che esce da un laghetto circolare, scuro e piuttosto profondo. Ecco descritto un sistema carsico classico per la Valle d’Aosta: un vecchio inghiottitoio intasato che diventa lago, l’acqua che deborda e che un po’ più in là trova il posto giusto per farsi inghiottire nella viscere della terra.
Quand’è che l’acqua si comporta in un modo così strano? Semplice: quando si trova a scorrere su un terreno che si scioglie al suo passaggio. L’acqua scioglie un po’ la roccia a componente calcarea, relativamente diffusa in questa parte delle Alpi, ma soprattutto scioglie il solfato di calcio, anidrite o gesso che sia. Dove il solfato di calcio affiora in superficie, per lo più coperto dalla vegetazione, l’acqua lo aggredisce in punti isolati o a tappeto, e gocciolina dopo gocciolina se lo trasporta via più o meno lontano prima di ridepositarlo evaporando (o cambiando temperatura o composizione). Al posto del gesso sciolto si forma un vuoto che prende la forma più o meno svasata di un imbuto, senza che di solito l’erba ne patisca: resta un prato con una o più conchette verdi, sulle quali si può camminare tranquillamente. Se un rigagnolo, magari temporaneo, finisce nella conchetta, essa può evolvere in vero e proprio inghiottitoio, facendo sparire il corso d’acqua. Il processo rientra fra i fenomeni carsici, così detti perché tipici dell’altopiano calcareo del Carso nelle Alpi orientali. Là interi fiumi spariscono nella montagna, per riapparire poi magari a due passi dal mare. In Valle d’Aosta l’esempio più conosciuto è quello della Borna di Ciove (la Grotta delle Cornacchie) nell’Unità mesozoica di Roisan (calcari dolomitici impuri) alla base della Cima Bianca in Comune di Torgnon, dove viene inghiottito il torrentello di Chavacour.
Il caso invece meno conosciuto è anche il più esteso e quello che contiene il record valdostano del più grosso inghiottitoio. Si tratta della dorsale fra la Valtournenche e la Val d’Ayas, caratterizzata da vaste terrazze debolmente inclinate, scalinate fra le Cime Bianche, la Manda-Salette, Cheneil, Chamois, La Magdeleine e Promiod. L’andamento suborizzontale delle superfici è dovuto al fatto che tutta la dorsale è impostata sull’impilamento di quattro corpi rocciosi stesi quasi orizzontalmente. Iniziando dal basso, troviamo l’Unità oceanica mesozoica di Zermatt-Saas con le sue rocce ultraprofonde: oficalciti, serpentiniti e metagabbri eclogitici. Al di sopra, dove resiste o è protetta, affiora la fascia dei sedimenti lagunari triassici, composti, sempre partendo dal basso, da quarziti tabulari, calcari più o meno dolomitici e infine da evaporiti (con solfato di calcio); la fascia bianca è spessa varie decine di metri nelle Cime Bianche, ma poi si assottiglia progressivamente fino a scomparire sotto lo Zerbion. Proseguendo verso l’alto, troviamo l’Unità oceanica mesozoica del Combin con prevalenti metasedimenti oceanici (“calcescisti”) in cui occhieggiano corpi deformati di metabasalti (“prasiniti”). Sulla falda oceanica, fra La Magdeleine e Antagnod si appoggia poi il Lembo continentale del Pillonet ad affinità africana, con rocce cristalline e loro coperture calcaree.
In tutto questo edificio, l’unità oceanica profonda fa da basamento più o meno indeformabile, mentre le due successive unità si lasciano dissolvere (la fascia bianca, anche se coperta) e bucare (l’unità a calcescisti). Ne risultano grandi catini (ad esempio Cheneil) o terrazze semisfondate (Chamois, La Magdeleine, Promiod) al cui apice, verso la cresta con la Val d’Ayas, conservano un rilevante spessore di evaporiti più o meno coperte da calcescisti. Questo è il terreno ideale per veder iniziare l’erosione ad inghiottitoi, che procede sia con enormi imbuti di dissoluzione (Chamois) che con una miriade di piccole depressioni, più o meno riempite d’acqua (La Magdeleine). Vediamo questi due casi con un po’ più di dettaglio.
Risalendo dal capoluogo de La Magdeleine al Col Pilaz e poi a Charey e Champlong, si resta stupiti, soprattutto in primavera avanzata, dalla quantità di laghetti in mezzo ai prati, laghetti in genere tondi, regolari e ben definiti, poco acquitrinosi. Normalmente piccole contropendenze in ambiente vegetato si colmano rapidamente e scompaiono dal reticolo idrografico. Qui no, i laghetti persistono di anno in anno in conchette tonde. Difficile resistere alla tentazione di attribuirli a “inghiottitoi abortiti”, imbuti di dissoluzione che, per il modesto spessore del livello evaporitico (la fascia bianca qui è ridotta a pochi metri, sepolta sotto detriti) non sfondano verso il basso ma drenano l’acqua anche nelle stagioni più secche.
Diverso il caso di Chamois, dove una grande bancata bianca sbarra il vallone a monte del capoluogo, in località Foresus a 2070 m s.l.m. Alla base della bancata vi sono opere di captazione delle abbondanti acque sorgive. Al di sopra della bancata, un ripiano simula lo spalto di una diga (2250 m) per poi sprofondare in un immenso imbuto verde dove scompare il gran torrente di Nannaz. Siamo nel pascolo di Clevabella, il cui punto più basso si trova a 2180 m. Il diametro della parte attiva dell’inghiottitoio è di circa 500 metri, ma la morfologia intorno appare influenzata dall’imbuto per un diametro di circa due chilometri. Sembra probabile che le sorgenti alla base della bancata calcareo-evaporitica non siano altro che il torrente di Nannaz “inghiottito” a monte: in questo caso si dovrebbe fare molto attenzione a captare tali acque, utilizzate dal bestiame dell’alpe di Clevabella e assai poco filtrate dal percorso carsico nella bancata.
[…] Della dolina di Chamois ha scritto Francesco Prinetti qui: https://www.andarpersassi.it/occhio-agli-inghiottitoi […]