Che cos’è la pietra ollare
La pietra ollare è una delle pietre usate nella preistoria, nell’antichità e nella tradizione di molti popoli nel mondo per produrre manufatti strumentali e rituali. Il termine pietra ollare è un’espressione coniata per artigiani alpini che producono recipienti (olle, lavezzi) e stufe in pietra, e non ha quindi preciso significato scientifico. La pietra così indicata, lavorabile ad un certo dettaglio senza che si spacchi, si ottiene da alcune rocce termicamente refrattarie, tenere, dense (“pesanti”), omogenee e compatte, prive di evidenti suddivisioni in piani. In campo culturale, il termine pietra ollare è stato in parte adottato dall’archeologia in quanto lampade e recipienti in tale materiale formano una parte non trascurabile dei ritrovamenti negli scavi.
La produzione attuale di oggetti in pietra ollare nelle Alpi è assai ridotta, circoscritta in genere ad attività artigianali di stufe, focolari e piccoli oggetti di arredamento e da giardino, o ad opere artistiche; inoltre la materia prima proviene sovente dall’esterno, anche da molto lontano.
Utilizzo della pietra ollare in Valle d’Aosta
Attualmente, sul territorio valdostano possiamo trovare in pietra ollare oggetti archeologici, attribuiti per lo più al medioevo, e pochi oggetti moderni di fabbricazione artigianale o artistica.
Limitandoci ai primi, passiamo qui in rapida rassegna quelli che ci sembrano essere i più significativi utilizzi storici di tale materiale.
1. Gli scarti di lavorazione di recipienti al tornio costituiscono il ritrovamento archeologico più classico e “normale”, quello che definisce la pietra ollare e identifica un antico laboratorio. I pezzi scartati rappresentano il residuo della cavità asportata della olla, ciò che si scava nel blocco di pietra per ottenere un recipiente. Si presentano in forma rozzamente conica ammucchiati nelle vicinanze delle antiche officine, le quali a loro volta sorgono non troppo distante dalle fonti della materia prima.
Praticamente tutti i depositi registrati in letteratura sono ora scomparsi, saccheggiati per uso decorativo di case private e giardini, tranne quelle parti incorporate in manufatti più grandi, come il sagrato della cappella di Saint-Jacques (Ayas). Ci si potrebbe chiedere come mai si trova abbondanza di pezzi scartati e quasi mai le olle vere e proprie. La risposta può essere cercata in due direzioni: da una parte, i prodotti finiti (le olle) sono assai più sparpagliati sul territorio (e anche più fragili) che non gli scarti di lavorazione; e d’altra parte, la produzione doveva essere destinata in gran parte all’esportazione, dato questo del massimo interesse per l’indagine storica. In effetti, non risulta ancora abbozzato un serio studio sui tempi e modi della diffusione di tali manufatti.
2. Gli affioramenti di roccia adatta ad essere lavorata come pietra ollare in Valle d’Aosta sono numerosi ma di estensione assai limitata. Alcuni di essi recano traccia di coltivazione in blocchi di forme svariate, cilindri o parallelepipedi, e di dimensioni in genere contenute, inferiori al metro cubo o anche di pochi decimetri cubi. Sono verosimilmente questi affioramenti che hanno alimentato fra l’altro l’esile filiera delle opere artistiche in pietra ollare, fra cui i testi (Cortelazzo, 2008) indicano colonnine d’altare e sculture sacre (vedi sotto).
Sulle lenticelle di pietra ollare che solcano gli affioramenti di peridotite serpentinizzata, tipici ad esempio delle Gole di Montjovet, sono a volte tracciate incisioni rupestri a coppelle ed a segni lineari, talvolta estese su vaste superfici. I segni lineari possono essere tagli di tipo “polissoirs”, croci di tutti i generi, balestriformi o altre composizioni più o meno figurative come scale, animali o simboli religiosi.
3. Ma la produzione che in Valle d’Aosta ha lasciato le tracce più imponenti, attestanti un’attività intensa e duratura per più periodi storici, riguarda un oggetto che in nessun’altra regione del mondo risulta prodotto in pietra ollare: la macina da mulino. Mentre infatti le macine sono generalmente in pietra dura (granito, quarzite ecc.), invece per certi usi specifici fin dall’antichità in tutta l’area padana e oltre venivano richieste macine “tenere” di provenienza per lo più valdostana.
Si tratta di manufatti cilindrici di dimensioni contenute, tipicamente non oltre 60 cm di diametro per 20 cm di altezza, con un foro centrale, per i quali si scelgono materie prime con un’alta percentuale di grossi cristalli duri immersi in una pasta di pietra tenera (vedi petrografia più sotto). Alcuni di tali materiali, in contemporanea e a poca distanza, venivano utilizzati per la produzione di pentolame in pietra ollare, per cui si ritiene incongruo separare concettualmente le due attività. Si presume che tali macine venissero esclusivamente usate per piccoli mulini a mano, fissi o anche trasportabili (in particolare nel corso di campagne militari), costituendo una specialità apprezzata e commerciata fino al XVI secolo. Una pietra ollare di questo tipo, di formato ridotto ed irregolare rispetto alle macine medievali, e con una superficie piatta consumata, al Museo Archeologico Regionale di Aosta è classificata ed esposta come strumento di molitura a mano di età preromana: l’utilizzo della pietra ollare valdostana per usi molitori andrebbe dunque fatto risalire almeno all’età del ferro. Il condizionale è d’obbligo in quanto la datazione, secondo alcuni esperti, andrebbe verificata.
I centri valdostani di produzione di macine sono localizzati in Valmeriana (Pontey) e nel vallone di Saint-Marcel. Per tutto il periodo di cui disponiamo di buona documentazione (secoli XII-XIV), le macine valdostane oggetto di mercato vengono globalmente indicate come macine di Saint-Marcel. Ora, proprio le macine provenienti da questa località sono costituite da un materiale diverso, dalle proprietà meccaniche simili alla pietra ollare, ma che, al contrario di quello della vicina Valmeriana, non è mai stato usato per le classiche produzioni in pietra ollare. Ci si trova dunque di fronte ad un dilemma di procedura: sono o non sono in pietra ollare le macine di Saint-Marcel? In altre parole: o si escludono le pietre da macina valdostane dall’ambito delle pietre ollari, o si aggiunge un nuovo materiale, usato solo per macine, alla lista generale delle pietre ollari. Considerata la indeterminatezza scientifica della categoria delle pietre ollari, noi faremo rientrare tutte le macine valdostane in tale ambito, sperando che possa presto essere determinata con precisione la loro composizione.
Petrografia della pietra ollare valdostana
Come accennato, la pietra ollare, entro il campo in cui viene circoscritta dalla consuetudine, non trova in petrografia un corrispondente univoco: a seconda delle zone si utilizzano rocce a diversa composizione mineralogica. Passando però in rivista i vari ritrovamenti archeologici e tradizionali di pietra ollare, ed identificandone i minerali costituenti, è possibile compilare un elenco di rocce petrograficamente definite in cui tali materiali possono venire ricompresi. Questo lavoro è stato abbozzato nell’articolo di Mannoni et al., 1987, che ha attribuito una lettera alfabetica da A ad L ad ogni tipo di pietra ollare allora studiato. Nella maggior parte dei casi i componenti principali della pietra ollare sono silicati idrati di ferro e magnesio. Si ottiene così l’indicazione che la pietra ollare, nelle sue principali versioni, è riconducibile all’ambito delle rocce aventi origine da una placca oceanica. Si tratta quindi di rocce provenienti direttamente dal mantello, o indirettamente dai suoi prodotti di fusione (basalto, gabbri) negli abissi oceanici, e sottoposte poi ad evoluzione idrotermale (cioè modificate in acqua più o meno calda, sotto pressione e ricca in minerali). Nel caso particolare della pietra ollare valdostana, essenziale è però il successivo processo metamorfico, comprendente uno sprofondamento “freddo” della placca oceanica (corrispondente ad un ciclo di subduzione litosferica: vedi Manualetto di Geologia alpina), ed una successiva risalita “tiepida” in ambiente idrato, con incorporazione di acqua nei minerali ferromagnesiaci.
A seconda dei diversi esiti di tale processo, disponiamo in Valle d’Aosta di diverse “pietre ollari”, in gran parte inventariate nella ricerca di Castello & De Leo, 2007; esse risultano raggruppabili in due grandi famiglie.
1. Cloritoscisti a clorite magnesiaca: grana fine o media, colore grigio-verde pallido, possibile presenza di granato e minerali di calcio in piccoli cristalli. Li si trova in associazione con le serpentiniti, rocce derivate dal mantello terrestre e trasformate sul fondo dell’antico oceano.
2. Cloritoscisti a clorite ferro-magnesiaca: grana media o grossa, più raramente fine, colore verde, presenza frequente, anche vistosa, di granato, cloritoide ed anfibolo. Li si trova in associazione con le metabasiti, antiche rocce magmatiche della crosta oceanica.
Residui di lavorazioni, se non anche pietre grezze, della prima categoria sono stati trovati innanzitutto nei due distretti che la tradizione, e gli autori dei secoli scorsi, indicano come “patria” della pietra ollare: Valtournenche (attorno a Champlève) ed Ayas (Vallone delle Cime Bianche). Parimenti nel distretto al confine fra Champdepraz (Col la Croix), Champorcher (Petit Rosier) ed Issogne (Lac Couvert) i blocchi con segni di estrazioni e gli affioramenti sfruttati per pietra ollare alle analisi si allineano alla prima categoria.
Inaspettatamente, però, campioni della seconda categoria sono stati ugualmente forniti da Ayas e Valtournenche, unitamente a fonti in detrito a Gressan (con grana fine). Comunque, i contributi alla seconda categoria, con tipologie a grana media o grossa, vengono per lo più dalle due zone di estrazione delle macine, Pontey (Valmeriana) e Saint-Marcel (Servette e altri siti).
Ai due estremi troviamo dunque: da una parte le vene di clorite fine, pallida o argentea, sfruttate per lastre, mortai e recipienti vari; dall’altra parte le lenti di cloritoscisti a granato e cloritoide ± anfibolo, usate anche (o solo) per fare macine. Fra i due estremi annoveriamo i vari cloritoscisti più o meno ricchi di magnetite, granato e silicati di calcio, che provengono dal Ventina (Ayas), dal torrente Molina (Pontey), dalla Clavalité (Fénis), ed i cloritoscisti ad anfibolo della Valtournenche. Tutti gli affioramenti, tranne quello del Breuil presso il Piccolo San Bernardo, appartengono alla falda oceanica profonda detta di Zermatt-Saas.
Rispetto al complesso delle pietre ollari alpine, quelle valdostane, con l’eccezione sopra ricordata, si caratterizzano dunque per appartenere ad una massa rocciosa sottoposta, nel corso del suo ultimo processo evolutivo, a condizioni di alta pressione-bassa temperatura corrispondenti al ciclo di subduzione della placca oceanica sotto quella adriatica. Ciò potrebbe costituire un prezioso elemento di riconoscimento dei manufatti valdostani sparsi per il mondo antico e medievale, in quanto relitti di assemblaggi minerali di alta pressione-bassa temperatura, caratteristici della facies eclogitica di subduzione, dovrebbero potersi identificare nel materiale del manufatto. Questo non circoscrive in modo assoluto l’appartenenza del manufatto in questione alla Valle d’Aosta, perché altre zone delle Alpi Occidentali hanno sperimentato equilibri eclogitici su rocce oceaniche, ma restringe considerevolmente il campo. Inoltre, allo stato attuale delle ricerche archeologiche, il contributo valdostano al commercio storico globale di macine e altri oggetti in pietra ollare sembra assai superiore a quello degli altri siti alpini che sfruttano rocce eclogitiche.
La pietra ollare che ereditiamo nel paesaggio
Non è facile riconoscere al volo i blocchi di pietra ollare nelle costruzioni e negli altri manufatti tradizionali. In generale si può dire che la pietra ollare è considerata una risorsa importante e quindi non viene sprecata nelle murature o nelle lastricature. Potrebbe invece essere inserita nelle riquadrature di porte e finestre, là dove era necessaria un’aggiustatina con lo scalpello, che sulla pietra ollare riesce più facilmente. In effetti in questo ruolo sono per ora documentati prevalentemente blocchi di cloritoscisto a grossi granati, frequenti per esempio nei villaggi di Plout ed Enchasaz (Saint-Marcel), dove costituiscono anche archi ed architravi. Non è da escludere, in questi casi, un movente prevalentemente estetico.
La tradizione asserisce che da Petit Rosier provengono i blocchi con cui sono state scolpite alcune statue installate nell’area sacra antistante il Santuario di Machaby (Arnad). Mediante sopraluogo in esterno si è potuto verificare che due statue sono scolpite in pietra ollare, un cloritoscisto a grana fine compatibile con quello di Petit Rosier: il Cristo in croce e San Girolamo nella nicchia del muro a monte (sud-est). L’altra statua (San Grato) così come colonne (anche quelle del portico), capitelli e piedistalli, sono invece modellati in una roccia a grana medio-grossa: una anfibolite ricca in albite e clorite.
Altri manufatti in pietra ollare sono qua e là reperibili nel paesaggio e nei monumenti valdostani. L’altare della cappella di San Valentino citato dal Brunod è quasi completamente smantellato, forse sussistono due colonnine. Una piccola croce sorge lungo la strada per Estoul, sempre in Comune di Brusson. Una bella arcata di porta è visitabile al castello di Quart. Una “caccia al tesoro” delle pietre ollari sarebbe assai utile nelle valli alpine per capire il ruolo storico di questo materiale e dei suoi antichi artigiani. Una traccia: i numerosi toponimi Lavessé, Lavachey, ecc. indicano probabilmente dei luoghi di lavorazione e vendita di lavezzi e di recipienti in genere…
Raccomandazione
Al Museo dell’Artigianato Valdostano di Tradizione (MAV) di Fénis la vetrina iniziale è dedicata alla pietra ollare. Vi sono esposti blocchi grezzi di pietra ollare valdostana, scarti di lavorazione provenienti da vari siti regionali raggruppati per tipo di pietra ollare, pezzi in lavorazione, prodotti a fine carriera. È possibile toccarli e, i più maneggevoli, prenderli in mano. L’allestimento è dovuto al geologo Paolo Castello, senz’altro il maggior esperto valdostano della materia. Egli ha redatto anche la precisa e completa scheda illustrativa della vetrina, che permette un corretto inquadramento di tutto l’argomento. Come dicono i francesi, incontournable!
Bibliografia minima
Castello P., De Leo S. (2007) – Pietra ollare della Valle d’Aosta: caratterizzazione petrografica di una serie di campioni e inventario degli affioramenti, cave e laboratori. In: Bulletin d’études préhistoriques et archéologiques alpines, XVIII, 53-76
Mannoni T., Pfeifer H.R., Serneels V. (1987) – Giacimenti e cave di pietra ollare nelle Alpi. In: La pietra ollare dalla preistoria all’età moderna. Atti del convegno, Como 16-17 ottobre 1982. Museo Civico Archeologico “Giovio”, Como, 7-45.
Cortelazzo M. (2008) – Pietra ollare in Valle d’Aosta: problemi e prospettive per una ricerca. In: Minaria Helvetica 30/2012, Actes de la Table ronde du 19-20 septembre 2008, Musée de la Pierre ollaire de Champsec (Bagnes, VS, Suisse).
Cortelazzo M. (2013) – Le macine in cloritoscisto granatifero (pietra ollare) della Valle d’Aosta: dai “moleria” al “molendinum ad brachia”. Un importante prodotto d’esportazione dell’economia valdostana nel Medioevo, in Bulletin d’Études Préhistoriques et Archéologiques Alpines. Numéro spécial consacré aux Actes du XIIIe Colloque sur les Alpes dans l’Antiquité, Brusson / Vallée d’Aoste, 12-14 octobre 2012, 89-124.