Clapey, chiapei, clapier, ciapé… per fortuna ci sono le lingue locali, dovessimo limitarci alle lingue nazionali le nostre espressioni sarebbero rozze e imprecise: pietraia, distesa di blocchi di pietra… Ma il clapey è un mucchio di pietre ben preciso. I blocchi devono essere abbastanza grandi, a spigoli vivi. E ci devono essere solo pietre, né terra né piante, al massimo un po’ di lichene. Ovvio che la patria d’elezione del clapey sta in alto, fra rock glaciers e colate nivali, dove la vegetazione pioniera comincia appena ad attecchire sulle morene e non prova ancora ad insediarsi sui massi nudi.
Questo è il clapey in senso lato. Ma noi, incontentabili, cerchiamo qualcosa di più speciale. Cerchiamo il clapey che occhieggia luminoso fra i boschi, ad altitudini magari molto più modeste. Cerchiamo il clapey dove non cresce nulla nonostante che intorno sia tutto verde. Cerchiamo il clapey in senso stretto, quello che se ti cascano le chiavi tra un sasso e l’altro scompaiono e devi pensare a cambiare la serratura. Nemmeno le vipere ci abitano volentieri. Non godono di grande simpatia questi clapey presso chi vive in montagna, e lo si può capire. Ma se un sentiero deve attraversare un clapey, la tecnica ancestrale ha ragione di ogni difficoltà, e il passaggio risulta comodo e qualche volta spettacolare come un viadotto in un deserto.
Ricapitoliamo. Perché una distesa di pietre sia un clapey in senso stretto per prima cosa non deve essere ascrivibile ad altre forme di accumulo, né detrito di falda, né corpo di frana, né cordone morenico, né tantomeno deposito alluvionale; e inoltre si devono verificare due condizioni:
- Non vi deve essere matrice (sabbia, argilla, limo…) né depositi fini, né humus, né vegetazione.
- I blocchi di pietra devono essere spigolosi e più o meno della medesima dimensione, generalmente qualcosa più di mezzo metro cubo.
La prima di queste condizioni si viene a verificare quando lo strato di pietre è sostenuto da una base drenante, cioè da una roccia fratturata lungo piani che conducono l’acqua “fuori” o comunque più in basso. In questo modo i blocchi in superficie vengono sistematicamente ripuliti grazie all’acqua delle precipitazioni atmosferiche che poi scola via per i larghi interstizi fra i blocchi e quindi finisce nel drenaggio della roccia.
La seconda condizione si verifica quando la massa rocciosa è stata fratturata da uno sforzo continuo e uniforme su una certa distanza. Gli sforzi di questa natura sono tipicamente provocati dallo scorrimento duttile (“plastico”) della roccia calda in profondità che si ripercuote sulla roccia fredda e rigida in superficie. L’accomodamento superficiale può avvenire anche a piccoli scatti “morbidi” per un lungo tempo dopo lo scorrimento profondo.
Vogliamo riassumere in altri termini tutto questo discorso? Allora diciamo che i clapey in senso stretto sono un’espressione morfologica speciale di alcune faglie presenti in Valle d’Aosta. La faglia viene classicamente definita come frattura del terreno con spostamento relativo delle parti separate, ed i geologi, quando vi prestano attenzione, vi cercano tipici indicatori di movimento (sulle pareti separate) e di frantumazione delle rocce interposte (dette cataclasiti). I nostri clapey, è vero, non corrispondono granché a questi criteri: non vi sono pareti striate in posto, e le pietre non sono le cataclasiti classiche. Però le varie modalità di funzionamento delle faglie non sono tutte prese in considerazione da chi esegue il rilevamento geologico. E le faglie sui nostri monti fanno di tutto, dal rilievo al paesaggio, all’idrografia, adattando il loro comportamento alle situazioni più disparate. Quel che conta è che la faglia è la struttura più diffusa che sia dotata di uno “scarico” idrologico in profondità, e che possieda un meccanismo per fratturare le rocce.
Dunque l’apparentamento dei clapey in senso stretto alle faglie mi sembra assai probabile. Limitandoci ai tre esempi illustrati nelle foto, i clapey di Marsin (Saint-Vincent) sono ben correlabili alla faglia del Gran Valey che fa parte del fascio di faglie detto dell’Ospizio Sottile, sistema miocenico (circa da 20 a 5 milioni di anni fa) di direzione NE-SW con una componente trascorrente sinistra (il settore a SE si sposta verso NE). I clapey del Bec Gavin (Issogne) sono anch’essi ben correlabili alla faglia Raty-Terrarossa che fa pure parte del fascio dell’Ospizio Sottile, un poco più a sud. Tutte queste faglie sono attive o lo sono state in tempi recenti. Il Chiapei di Ghiabiou (Pontey) potrebbe invece dipendere dalla faglia Aosta-Ranzola, accidente oligocenico (da 39 a 20 milioni di anni fa) di direzione E-W, ma anche da una branca locale più attiva della faglia Ospizio Sottile.
Ultima notazione etnografica. Mentre per le faglie in generale si possono (raramente) trovare delle “prese di possesso agro-pastorali” sul loro tracciato (l’esempio più clamoroso è costituito dal campo di incisioni rupestri al Lac Couvert sulla faglia Raty-Terrarossa), non mi risulta che alcun clapey sia stato colonizzato da segni o incisioni di alcun genere. Davvero un posto da evitare…
Uscendo dalla Valle d’Aosta. A cosa correleresti le similari strutture su monti Gregorio e Betogne in Valchiusella? Non so, però, se le conosci.
Ciao
Ciao Diego e scusa il ritardo. Effettivamente Betogne non l’ho presente. Le pietraie del Monte Gregorio segnano l’affioramento del plutone di Traversella. Non conosco bene il metamorfismo di contatto, ma a causa dello choc termico una intensa fessurazione potrebbe prodursi con funzione di drenaggio. Ed è il drenaggio il fattore principale dei clapey. Pura ipotesi…
Merci per avermi mandato la documentazione dei “chiapei”. Se un giorno sali a Grun ti farò vedere un chiapèi in mezzo al bosco (ma forse lo conosci già).
Ancora grazie