Come il Musiné in Valsusa o il Monfenera in Valsesia, le montagne che presidiano l’entrata nelle grandi valli alpine hanno sempre qualcosa di speciale. Leggende, pellegrinaggi, statue e manufatti vari ne prolungano nel presente la notorietà e la frequentazione attestate da reperti e testimonianze di storia e di preistoria.
La Colma del Mombarone, 2371 m fra Canavese, Biellese e Valle d’Aosta, ha le carte in regola per il suo ruolo di gran gendarme vallivo fronte alla pianura. Dalla sua cima si sorvegliano borghi e colline sia dentro che fuori l’Anfiteatro Morenico d’Ivrea, e lo sguardo si spinge lontano, oltre la pianura e i suoi laghi, dal Monviso alle Alpi Centrali. Le sue pendici, nei quadranti sud, si stendono per un dislivello di oltre 2000 metri, dalla cima ai 250 m circa del fondovalle balteo.
Ed è proprio il vagabondaggio lungo questi pendii, solitari e austeri nella loro parte alta, che ci fa conoscere alpeggi, barme e ripari sovente associati a rocce incise o dalle forme inusuali. L’attrazione verso queste forme scavate nella roccia coinvolge tanto i ricercatori in campo etnografico quanto gruppi di persone affascinate da tali silenziosi messaggi. Sulle rocce più interessanti non è raro infatti trovare delle schiere di lumini accesi e delle offerte varie di cibo, replica attuale di ipotetici riti ancestrali. Anche noi abbiamo ceduto alla curiosità e abbiamo cercato di osservare meglio queste pietre, iniziando dalla qualità delle rocce che si è rivelata un dato fondamentale.
Le due rocce del Mombarone
Le rocce di questa parte del Mombarone sono essenzialmente di due tipi.
In maggioranza si tratta di micascisti, quelli che hanno dato il nome all’intero “complesso dei Micascisti eclogitici” all’interno della Zona Sesia-Lanzo. Si tratta di rocce molto antiche (paleozoiche) ricristallizzate nel processo di edificazione delle Alpi (65 milioni di anni fa). Contengono silice abbondante, caratteristica che fa attribuire la loro origine da una placca continentale (l’Africa?).
Quarzo e mica bianca sono i componenti principali, accompagnati da pirosseno sodico (onfacite-giadeite) e anfibolo blu (glaucofane), quest’ultimo a volte abbondante in bei cristalli centimetrici. Rari i noduli ferromagnesiaci a granato, onfacite e glaucofane. Su queste rocce le incisioni sono quasi assenti, solo si trovano alcuni segni di confine catastale.
In zone limitate affiorano invece originari corpi magmatici permiani (270 milioni di anni fa), derivati verosimilmente dalla fusione delle rocce precedenti. Questi hanno composizione granitica o granodioritica, con tessitura granulare più o meno orientata (metagraniti o gneiss). Anche in queste rocce non è raro trovare granato e onfacite in piccoli cristalli come prodotto del successivo metamorfismo alpino (65 milioni di anni fa). Su questi affioramenti e blocchi staccati è tracciata la quasi totalità delle incisioni, dei reperti e dei segni oggetto di culto, tra cui i tafoni.
I tafoni, un modello per le coppelle?
Tafoni sono chiamati, con termine mutuato da lingue mediterranee (corso o sardo), le cavità tondeggianti, in genere da qualche centimetro a qualche decimetro di diametro, che si formano su rocce granulari, da noi in particolare su rocce intrusive come i graniti, su rocce derivate come alcuni gneiss, e su alcune anfiboliti. Le rocce granulari tendono ad erodersi per distacco dei granuli. In qualche caso l’erosione non è tutta uniforme, ma risulta più efficace in determinati punti in cui la roccia presenta un innesco, sotto forma di discontinuità anche minima. Quando ciò avviene, la disgregazione dei granuli in quel punto della superficie della roccia provoca un ulteriore aumento dell’efficacia erosiva e quindi un’accelerazione su quel punto della disgregazione stessa, con approfondimento progressivo della cavità. Microrganismi, vento e pioggia possono intervenire sulla crescita dei tafoni, che comunque ha dei limiti ben precisi.
Sovente i tafoni si raggruppano in sciami lungo piccole fratture o discontinuità della roccia. Non di rado crescono fino a simulare piccole vasche magari effettivamente utilizzate come abbeveratoi per il bestiame.
Quanto alla forma dell’incavo, i tafoni del Mombarone (e di altre montagne del Sesia-Lanzo: bassa valle di Gressoney, fondovalle di Donnas, Pera Picolla…) sono di due tipi, a seconda se si impostano su una superficie orizzontale o su una parete verticale. Infatti i blocchi di metagranito e gneiss del Mombarone, costituiti da sottili letti minerali sovrapposti, conservano sovente una forma a parallelepipedo, appoggiati sul pendio con la base aderente al suolo e la faccia superiore piatta e poco inclinata. Su questa superficie il tafone procede in approfondimento perforando un livello dopo l’altro, e allargando progressivamente il diametro. Il tafone termina con un fondo piatto e relativamente poco profondo all’ultimo livello raggiunto.
Sulle pareti laterali dei blocchi invece i tafoni si scavano a tutto tondo, aggredendo di taglio i livelli strutturali della roccia. Se non intervengono fattori di disturbo, il diametro interno della cavità su parete verticale tende ad essere maggiore di quello dell’orificio.
Su superficie orizzontale o poco inclinata, i tafoni possono essere coalescenti, addossandosi in modo da formare un’unica figura in genere asimmetrica. Due tafoni coalescenti vengono sovente indicati dai cercatori di coppelle come “impronta di piede”. Anche altri tafoni si discostano sensibilmente dalla tipica forma circolare grazie a difformità nella roccia, ma conservano generalmente il fondo piatto.
Su diverse coste rocciose, in Europa e altrove, i tafoni sono numerosi e piuttosto spettacolari, in quanto favoriti dall’umidità marina. Forse queste forme naturali hanno fornito la prima ispirazione agli antichi incisori di coppelle?
Dai tafoni alle coppelle… e altro
Nella zona di Mombarone presa in esame i tafoni costituiscono grosso modo l’ottanta per cento dei segni su roccia segnalati come “coppelle” nella letteratura specialistica (Scarzella et al., 1974). C’è da dire però che una parte significativa dei tafoni di superficie orizzontale presenta tracce di “coppellizzazione” con interventi atti a correggere i “difetti” dei tafoni, in particolare la regolarizzazione della pianta circolare e l’approfondimento a scodella del fondo originariamente piatto. A quando risalgano tali interventi non è dato sapere, ma si può supporre siano coevi dei riti notturni con lumini ed offerte di cui vediamo attualmente le tracce.
Le incisioni rupestri vere e proprie in questa zona del Mombarone si riassumono in alcune croci, alcune coppelle, alcune date su architravi (XIX secolo) e alcuni manufatti utilitari, come due magnifiche grondaie a protezione di un riparo sotto roccia, ed uno scolino per il latticello dei formaggi, oltre ad alcuni segni catastali. Altri manufatti degni di nota sono gli ometti di pietra edificati su alcuni dei numerosi risalti di cresta. Da segnalare anche i resti di un antico insediamento poco sotto la cascina Alpone, che fa presumere edifici arcaici con sovrastrutture in legno o pelli.
Infine, la sorprendente tomba a cista sotto al Bric Paglie, segnata anche sulla carta al 1:25000 di Zavatta ma mai esplorata archeologicamente. La tipologia, anche secondo chi l’ha segnalata (Vaudagna, 2005) richiama le tombe neolitiche di questa parte delle Alpi, e risalirebbe dunque ad almeno il IV millennio a. C. costituendo un reperto importante nel contesto alpino occidentale. Oltre tutto, due delle lastre laterali hanno forma di stele. Entusiasmante, anche troppo… sorge infatti il dubbio di un falso, anche per le due figure antropomorfe alla testa ed ai piedi della tomba, perfette, ben incise con strumento metallico…
Nota
L’esplorazione del territorio fra le quote 1200 e 2200 del Mombarone si è svolta nella primavera del 2017 ad opera di Faustino Impérial e dello scrivente. Si è seguita la traccia indicata dagli autori citati, Scarzella e Vaudagna, anche se del primo non si è ritrovato tutto quanto da loro descritto.
Bibliografia citata
Scarzella M., Scarzella P., Craveia I. (1974) – Le incisioni rupestri del Mombarone da Graglia. In: Bulletin d’études Préhistoriques alpines VI 99-116, 117-133, 161-178.
Vaudagna A. (2005) – Ricerche archeologiche nelle Alpi biellesi. In: Bulletin d’études Préhistoriques et Archéologiques alpines XVI 237-261.
Vaudagna A. (2006) – Progetto Alte Valli. In: Bulletin d’études Préhistoriques et Archéologiques alpines XVII, 167-177.