Non me ne vogliano gli appassionati puri e duri di geologia se, sullo slancio, mi dilungherò un pochino sul fenomeno Forte di Bard in generale. Il fatto è che chi ama veramente la montagna finora era stato costretto ad intenerirsi sempre su relitti, su sopravvivenze stentate, su ruderi di una civiltà che fu. Tutto quello che era nuovo, grande e appariscente in montagna era, lasciatemelo dire, estraneo allo spirito della montagna: grandi funivie, grandi parcheggi, lunghe strade che violentano le foreste, grigie “stalle modello” copiate forse dalle pianure del mid-west. Per la prima volta, a Bard qualcosa di grandioso, sapiente e moderno arricchisce la montagna. Forse gli uomini, sia pure umilmente riattando vecchie strutture, sono ancora in grado di produrre paesaggio in montagna. Con questa speranza in cuore anche le magagne e le inadeguatezze dell’allestimento museale passano in seconda linea. Magagne e inadeguatezze probabilmente dovute in ultima analisi alla scelta (obbligata, da capitolato d’appalto) di presentare un’antologia delle Alpi, con contenuti esposti orizzontalmente e non organizzati in un cammino di progressione e di maturazione. A dire il vero, questa carenza doveva esser presente agli organizzatori, che hanno cercato ovviarvi dando un senso al percorso tramite il passaggio dal buio iniziale alla luce finale, ma la cosa risulta un po’ tirata per i capelli. Poco male, perché alla fine del percorso si respira contenti fra immensi, solidi muri e rassicuranti roccioni che sbucano da ogni parte, e non si ha affatto l’idea di aver perso né tempo né denaro.
E veniamo alla saletta geologica del museo delle Alpi. Ecco il Cervino a tre dimensioni, con giochi di luce ma nudo e crudo: persa una ghiotta occasione di proiettare con luci colorate, ad una certa fase del ciclo di illuminazione, i classici segni strutturali, pur ben visibili al naturale (fronte di scorrimento della falda africana, vistoso contatto dei gabbri alla Testa del Leone…).
Su due schermi tv, lo stesso geologo altoatesino parla del granito e delle Dolomiti. In effetti le Dolomiti monopolizzano oltre il 50 % della sala, comprese le storiche carte geologiche e i fossili. Le impronte di dinosauri riprodotte sono quelle del Pelmetto in Cadore. Altre immagini significative mostrano l’attimo di una eruzione vulcanica esplosiva e una colata di fango. Sul pavimento è illustrata la formazione di ripple-marks dalle spiagge triassiche a quelle odierne. C’è qualcosina sulle glaciazioni, c’è qualcosina sulla “deriva dei continenti” (non arriverei a definirla teoria delle placche), ma senza alcun cenno al ruolo della tettonica nella creazione delle montagne. Le Alpi ci sono e basta, non ci interessa sapere come sono venute fuori. Gradevoli le tre vetrinette di minerali, di cui gli inevitabili quarzi del Bianco fanno la parte del leone, ma la rappresentativa dei silicati di manganese (Praborna) e di altre mineralizzazioni idrotermali o rodingitiche valdostane è quantomeno presente.
Malgrado queste critiche, la sala si visita con piacere per le belle gigantografie, le interessanti vetrine, e molti dettagli che confermano un certo impegno, almeno architettonico e spettacolare se non proprio pedagogico, nella realizzazione. Dove invece giudico “pollice verso” senza scuse, è nel settore delle attività umane, reparto miniere, nella cui vetrina ai nomi dei prodotti minerali estratti non corrisponde il campione, ma… un oggetto a caso, di difficile identificazione: come dire, tanto il visitatore non capisce la differenza…
Un museo tecnologico e multimediale offre un viaggio interattivo per conoscere la montagna e viverla in un modo straordinario. Occhi sbarrati per grandi e piccini…
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