I lunghi versanti valdostani, stesi per dislivelli di due – tremila metri dalle rive della Dora alle creste spartiacque, sono sovente tagliati a mezza costa da corsi d’acqua artificiali a debole pendenza in funzione di canali d’irrigazione agricola. Tali canali sono detti in lingua locale ru. La loro funzione è di ridistribuire orizzontalmente sulle migliori superfici agricole del versante l’acqua che la gravità e la conformazione naturale del reticolo idrografico concentrano in un torrente sul fondo di un vallone.
Per distribuire l’acqua su estesi versanti relativamente aridi si è reso talvolta necessario andare a cercare la presa su torrenti glaciali in quota. Questi ru tagliano a lungo il versante di valli laterali prima di raggiungere i terreni da irrigare nella valle principale: celebri il Ru Courtaud (Ayas-Brusson) per Saint-Vincent e il Ru Chavacour (Torgnon) per Verrayes. Altri canali importanti nascono e muoiono all’interno di valli laterali, come il Ru de By (Ollomont-Doues-Allein) che scorre interamente al disopra dei 2000 m. Lunghi fino una ventina di chilometri, sovente ora fungono anche da piste di fondo e mountain bike.
Passeggiare lungo i ru di bassa quota poi è attività piacevole e rilassante. La cosa ha quasi del miracoloso perché in Valle non c’è una vera e propria strategia turistica dei ru, e a dire il vero neppure sul loro uso agricolo si vedono politiche precise. Meglio così, la materia è complessa e a prendere decisioni drastiche si rischierebbe qualche disastro. Il risultato si può riassumere dicendo “paese che vai canale che trovi”, con esempi che spaziano dal ru intubato sotto una strada asfaltata al solco incerto nel bosco intricato. Addirittura capita di notare dal basso arditi archi residui, aggrappati a bancate rocciose verticali: sono i “Ru du Pan Perdu” scomparsi per la maggior parte del percorso già nel XVII secolo, e solo accessibili in alcuni punti.
Origine dei ru
In effetti il mistero aleggia sui ru fin dalla loro lontana origine medievale. Come mai improvvisamente seicento e più anni fa i valdostani hanno sentito la necessità di questi canali, hanno pagato fior di quattrini il diritto di convogliare le acque, e si sono imbarcati spontaneamente in opere grandiose e non prive di rischi? Fatto sta che fra il XIV ed il XV secolo furono scavati una sessantina di ru importanti, più innumerevoli derivazioni. Da un bel pezzo i canali romani extraurbani, di cui abbiamo una documentazione assai carente, dovevano essere scomparsi, e quasi cinquecento anni passeranno prima che si investa nuovamente, e assai modestamente, in irrigazione.
Grazie ad un massacrante lavoro di manutenzione, che ha visto anche grandi momenti di solidarietà e di organizzazione comunitaria, se ne sono mantenuti in vita più della metà fino a tempi a noi vicini. In effetti il clima (attuale) valdostano giustifica pienamente l’investimento in irrigazione: umidità e precipitazioni sono assai scarse nelle aree centrali della regione. L’utilità dei ru è stata dunque riconosciuta anche nei periodi successivi, sebbene la spaventosa decrescita seguita agli eventi del 1536 (e in parte alla peste del 1630) non ne abbia permesso il mantenimento complessivo. Per alcuni ru superstiti, un duro colpo è poi venuto con l’alluvione dell’ottobre 2000, ma già lo spopolamento montano dall’ultimo dopoguerra ne aveva imposto la trasformazione (intubazione, irrigazione a pioggia) o l’abbandono. Attualmente resta una trentina di ru storici, con meno del 20% del tracciato su fondo naturale, proponibili per un turismo di pregio.
Ma torniamo al nostro periodo, a cavallo fra XIV e XV secolo, quando si costruirono i ru valdostani. Molti pensano che i ru siano la risposta del mondo contadino ad un cambiamento climatico. Tutte le ricostruzioni finora effettuate dell’andamento del clima medievale però indicano un progressivo e assai lento raffreddamento delle temperature medie, con probabile leggero aumento delle precipitazioni, a partire dall’optimum climatico dell’anno mille fino al XVIII secolo, quando le oscillazioni si fanno più ampie. Non vi è dunque traccia, negli studi effettuati finora, di un salto di qualità nel clima alpino di quel tempo che possa aver determinato la necessità di reintegrare delle disponibilità idriche venute a mancare.
Allora, a che cosa servivano i ru?
Per poter rispondere, la ricerca storica attuale si concentra sulle trasformazioni territoriali e socio-antropologiche collegate con la costruzione dei ru. Che cosa cambia in una comunità rurale quando s’introduce l’irrigazione? Cambia la destinazione dei terreni, con l’incremento delle colture a foraggio (prati) e degli orti. Sono queste le colture che, nel XIV-XV secolo, necessitano maggiormente di regolare irrigazione. Cereali e vigneti resistono bene a regimi più asciutti, e restano territorialmente prevalenti. C’è dunque da aspettarsi un incremento dell’allevamento bovino, quello che necessita di buoni prati e buoni foraggi. Fino a ieri non c’erano ricerche in proposito. Ora è disponibile (vedi figura 7) l’inventario di tre preziosissime “pattumiere” d’epoca, opportunamente datate a prima, durante e dopo il periodo di costruzione dei ru. Ebbene, da questo inventario dei resti alimentari risulta uno spettacolare aumento dei bovini nel XV secolo, ad un livello che si mantiene stabile alla fine del XVI secolo. Sarà opportuno grufolare ancora in altre discariche per avere delle conferme, ma già così il dato è eclatante: l’apparizione dei ru e dell’allevamento bovino sono concomitanti, e con ogni probabilità i ru sono stati costruiti proprio per poter allevare mucche e buoi.
Chissà che i ru non segnino anche la nascita della fontina; sicuramente segnano la nascita dei formaggi valdostani di latte vaccino. Segnano anche l’adozione di forza-lavoro nuova, anche se non sconosciuta, nelle nostre campagne: i buoi per tirare l’aratro e i carretti. Infatti dalle ossa della discarica si vede che i bovini erano consumati adulti a fine carriera, sia vacche che buoi.
Altre correlazioni si cercano nella storia economica. Il periodo fra la metà del Trecento ed il famigerato 1536, pur fra drammatici episodi, è un periodo di straordinario sviluppo per la nostra valle: si può dire che, dopo la caduta dell’impero romano, sia l’unico periodo storico valdostano di relativo benessere sostenuto da imprenditorialità e da cultura. In ambiente alpino, un tale sviluppo si può instaurare quando si verificano le necessarie condizioni di apertura verso l’esterno (commerci, pellegrinaggi, migrazioni) e di libertà interna di movimento (complementarità economica dei vari livelli altitudinali). Dunque, in una situazione di sviluppo quale quella in esame è abbastanza naturale che si proceda ad innovazioni colturali, a diversificazione produttiva, a miglioramenti strutturali quali i ru potevano rappresentare.
Se poi diamo uno sguardo a situazioni vicine, in Savoia e soprattutto in Vallese, nonostante congiunture climatiche ben più umide, si assiste nel periodo ad un analogo sviluppo dei canali d’irrigazione. Ciò dimostra da una parte la stretta interdipendenza delle economie alpine, e dall’altra la natura di innovazione globale, su scala europea, che riveste il nuovo orientamento produttivo verso l’allevamento bovino.
Forza e debolezza della civiltà alpina
Prima di lasciare il campo agli addetti ai lavori, facciamo ancora un passettino avanti. Che cosa significa storicamente per una comunità l’introduzione di una nuova attività come l’allevamento bovino?
Certamente, come ogni diversificazione, anche questa rafforza la struttura produttiva, rendendo l’economia aziendale e comunitaria meno vulnerabile. Ma soprattutto, in ambito alpino questa diversificazione permette lo sfruttamento di risorse nuove o il miglior sfruttamento di risorse esistenti.
È infatti probabile che a questo periodo (tra XIV e XV secolo) risalga, per il territorio alpino, una più razionale organizzazione altitudinale del lavoro agricolo, con il pieno sfruttamento dei grandi pascoli in quota non solo più per greggi vaganti (che subiscono una sensibile diminuzione numerica) ma ora soprattutto per mandrie bovine di più proprietari, strutturate in tramuti. Allo stesso tempo, i villaggi si dovevano attrezzare con rascards al fine di immagazzinare il fieno per l’inverno, cioè per quando le mandrie scendevano dagli alpeggi e la neve copriva il terreno. Questo fieno era prodotto tramite i ru. Se le ipotesi sono giuste, siamo in presenza di un’innovazione fondamentale per mitigare l’handicap storico della montagna, la scarsa resa dei suoli. I ru rappresentano un aumento del valore della terra, intesa come mezzo produttivo, mediante investimento tecnologico, nella fattispecie mediante un’innovazione che ottimizza lo svolgimento del processo produttivo su superfici molto più vaste e diversificate rispetto alla pianura. Il risultato è che l’unità produttiva alpina è ora in grado di produrre tendenzialmente lo stesso valore di un’unità produttiva di pianura, utilizzando più spazio, più organizzazione, più tecnologia. In questo sistema, la differenziazione delle attività economiche opera anche a livello di comunità, integrando necessariamente l’attività agro-zootecnica con le tradizionali risorse alpine: la costruzione edile specializzata, la miniera, il commercio migratorio (e molto altro). La crisi in un territorio alpino interviene allorché al montanaro, per motivi politici per lo più esterni, viene inibito il libero spostamento fra le varie componenti della sua economia, e non, come dicono quegli antropologi che a parole rifuggono dal determinismo, a causa della “sterilità” o “difficoltà” insite nel territorio montano, alle quali i montanari sanno benissimo far fronte. Gli eventi dell’anno 1536, con la conseguente chiusura delle frontiere, la cessazione dei commerci e l’intimidazione religiosa, scateneranno infatti la crisi totale della comunità valdostana ormai solo più aggrappata al particolarismo.
Questo è solo un piccolo suggerimento per delle fantasticherie quando si è a passeggio lungo un ru. In realtà se si vuole seguire i tratti più avventurosi ed esposti di questi canali, è meglio concentrarsi sul dove mettere i piedi e lasciar perdere le elucubrazioni storiche…
Indicazioni bibliografiche
Vauterin G. (2007) – Gli antichi ru della Valle d’Aosta. Le Château, Aosta, 415 p.
AA.VV. (2001) – Histoires d’eau. Centre d’études franco-provençales – Saint-Nicolas
AA.VV. (1994) – Actes du colloque international sur les bisses. Annales Valaisannes 70, 1995
Bedini E., Cortelazzo M. (2013) – I reperti faunistici del Castello di Quart: alimentazione e uso del suolo tra XIII e XVI secolo. Bulletin d’études préhistoriques et archéologiques alpines. 24, 189-206
Mercalli L. (coord.) (2006) – Cambiamenti climatici in Valle d’Aosta. Soc. Meteorologica Subalpina, 150 p.
Bell’articolo! Quelli che in Valle d’Aosta son chiamati “ru” assomigliano agli “acquidocci” toscani (cf manuale qui http://bit.ly/MP_Manuale ).
In Toscana (come in Liguria, per quel che ho visto durante la visita per l’incontro mondiale su paesaggi terrazzati https://youtu.be/FoWRvEbT5UI ) gli acquidocci sono i preziosissimi canali di sgrondo posti a monte delle aree terrazzate e che hanno la funzione principale di alleggerirne il carico durante le forti piogge mediterranee. Dalla buona manutenzione di questi canali spesso dipende la stabilità dei versanti più critici e abbandonati.
Quando le cose che uno fa e scrive diventano, per chi ha capacità e conoscenze, il volano per ampliare prospettive storiche e culturali, allora si crede sempre un po’ di più nel proprio lavoro. Comunicare la storia o i dati crudi delle ricerche è attività tutt’altro che semplice e Francesco in questo è maestro.